Che voce ha la montagna? Che colore ha il suo canto e da dove viene? La montagna: una dea pagana? Una madre divoratrice? Uno spirito elementare dell’acqua e della terra? Una ninfa incantatrice? E se la montagna è questo spirito elementare, creatura ninfea, allora come Venere, loro regina, ha bisogno degli umani per coltivare insieme quella passione amorosa che le permetterà di abbandonare la natura animale e così umanizzarsi. Forgiata ad immagine non di dio ma dell’uomo, la montagna ne rappresenta una sorta di «ombra» che lo accompagna ed insieme a lui si «anima». Ed in questo volo d’immagini, si tesse la storia delle imprese alpinistiche, delle ascese riuscite e delle scalate mancate. Leggiamo: «Se nasci dalle nostre parti non puoi ignorare la montagna. Ce l’hai sempre sotto gli occhi. …Parto nel cuore della notte per fare un dislivello di mille metri e andare ad ammirare l’alba da lassù. C’è un rapporto anche fisico con la montagna. Mi piace la naturalezza del movimento quando arrampico. …Affrontando la montagna in questo modo, è inevitabile che te ne innamori. Allora vorresti approfittarne, farla tua, ma innanzitutto rispettarla.»
In queste righe leggiamo l’atto d’amore e l’atteggiamento di «devozione» che accompagnano Simon Kehrer, Walter Nones e Karl Unterkircher nella loro scalata al Nanga Parbat, ora narrata dai due superstiti nel bellissimo libro in uscita in questi giorni nelle edizioni Mondatori, intitolato È la montagna che chiama. Infatti, la montagna oltre ad essere ninfa è anche chiamata, cioè invito al destino. L’universalità del tema della chiamata ne fa un archetipo: ricordiamo quella di Abramo che, ormai vecchio, lascia la sua casa per rispondere alla chiamata di Yahweh; oppure quella di Giovanna d’Arco o di San Paolo. Qui, la chiamata costituisce una svolta, un momento cruciale della vita ed apre verso l’ignoto, che nascondendosi chiede di essere svelato. La voce non ha parola ma invocazione all’altro affinché ne ascolti il segreto. «La via della montagna mira a raggiungere una sorta di illuminazione che ti permetterà di godere della vita più intensamente e con maggiore pienezza.» I capitoli brevi sono scritti a due mani, con la naturalezza di una fiaba, la gaiezza e leggerezza di un «canto» anche là dove si racconta di paure, pericoli, valanghe, morte. Ora narra Simon (Kehrer) ora Walter (Nones), in un alternarsi di note tecniche, gioie intense, impressioni di viaggio, emozioni dell’attesa, stanchezza fisica, allegria complice, sogni ad occhi aperti, nostalgie di casa, sofferenza mortale, resurrezione e spirito di sopravvivenza, silenzi e bellezze primordiali: «L’alba è il momento più freddo della notte. Le montagne intorno a noi assumono sfumature stupende, mentre nasce il nuovo giorno. Ma il silenzio è la cosa più impressionante. Sembra di assistere alla creazione del mondo.» Queste righe di una bellezza ascetica e rivelatrice descrivono il sorgere di un giorno, il 15 luglio 2008, promettente infinito e, purtroppo, anche eternità: il silenzio del meriggio avrà l’eco tragico e improvviso della morte. Incontriamo i due autori Simon Kehrer e Walter Nones, sopravvissuti alla tragedia del Nanga Parbat, dove il loro compagno e capo spedizione Karl Unterkircher muore, scomparendo in un crepaccio invisibile. Com’è avvenuto l’incontro con Karl Unterkircher? E perché avete scelto il Nanga Parbat? Kehrer. L’incontro con Karl è avvenuto circa 10 anni fa; era un amico, un uomo calmo, simpatico, un grande alpinista che sapeva quello voleva. La scelta del Nanga Parbat l’avevamo fatta nel 2003-2004, poi però i colleghi che dovevano partecipare alla spedizione hanno messo da parte il progetto. E così nel 2008, dopo i problemi incontrati nel Gasherbrum, lo abbiamo subito ripreso. Come si vive un’ascensione in gruppo? Nones. È importante conoscersi molto bene, non solo dal punto di vista alpinistico ma anche del carattere, perché si sta insieme 24 ore su 24; è fondamentale andare d’accordo non solo per la riuscita dell’impresa ma anche per la fiducia che riponi nei compagni, nonostante sai che in alta quota ognuno deve essere in grado di gestirsi da solo, in ogni situazione, e con Karl e Simon è stato così. E poi riesci a fare dei dialoghi molto profondi, come testimoniano le pagine del nostro libro: scalare una montagna non è solo esperienza alpinistica ma anche umana. Cosa prevale in un’impresa alpinistica: la tecnica, l’esperienza, il desiderio di riuscire? Kehrer. Innanzitutto l’amore per la montagna e il desiderio di scalare una parete ancora inviolata. Come vivete il pericolo e i fascino del supermento dei limiti, la forza smisurata della montagna? Kehrer. Io non direi che superiamo i nostri limiti; forse superiamo i limiti delle vecchie generazioni di alpinisti. Non è il pericolo che ci attira, anzi cerchiamo di evitarlo; quando non è possibile, allora in quei momenti ci dobbiamo affidare al nostro destino. Nones. Li vivo come la vita di ogni giorno: nel modo più naturale e spontaneo possibile. Quando si fanno queste scelte la cosa che mi piace è che si vive intensamente ogni attimo; anche il semplice gesto di prepararsi da bere diventa importante. Nanga Parbat: Karl Unterkircher scompare davanti ai Suoi occhi: quanto pesa l’amicizia, gli affetti e quanto la pulsione di vita? Kehrer. Il tutto accade in un attimo, in un silenzio che sembra non finire; poi realizzo che Karl è sparito, non solo davanti ai miei occhi, ma….. Durante e dopo il tentativo di soccorso mi passano nella mente tanti ricordi, momenti felici trascorsi con lui… Poi, però, l’istinto di sopravivenza diventa più forte, anzi abbiamo l’obbligo di continuare, sentiamo il dovere di portare a termine il sogno di tutti e tre: aprire una nuova via, scalare la grande parete del Rakhiot e …dedicarla a Karl. Cosa significa raggiungere o rinunciare alla cima? Kehrer. La montagna è bellezza ma anche pericolo. Si deve sempre tenere un margine di controllo per capire quando è il caso di rinunciare. Non ci si deve vergognare per questo, anzi è segno di saggezza, poiché anche quando un’impresa riesce non è merito tuo: è stata la montagna a permetterlo. Quando Simon Kehrer e Walter Nones torneranno sugli Ottomila? Kehrer e Nones. Qualche sogno nel cassetto c’è. Vediamo cosa ci porta il destino: è la montagna che chiama! (Francesco Marchioro, in Corriere della sera - Corriere dell'Alto Adige e Trentino, 11.06.2009)
In queste righe leggiamo l’atto d’amore e l’atteggiamento di «devozione» che accompagnano Simon Kehrer, Walter Nones e Karl Unterkircher nella loro scalata al Nanga Parbat, ora narrata dai due superstiti nel bellissimo libro in uscita in questi giorni nelle edizioni Mondatori, intitolato È la montagna che chiama. Infatti, la montagna oltre ad essere ninfa è anche chiamata, cioè invito al destino. L’universalità del tema della chiamata ne fa un archetipo: ricordiamo quella di Abramo che, ormai vecchio, lascia la sua casa per rispondere alla chiamata di Yahweh; oppure quella di Giovanna d’Arco o di San Paolo. Qui, la chiamata costituisce una svolta, un momento cruciale della vita ed apre verso l’ignoto, che nascondendosi chiede di essere svelato. La voce non ha parola ma invocazione all’altro affinché ne ascolti il segreto. «La via della montagna mira a raggiungere una sorta di illuminazione che ti permetterà di godere della vita più intensamente e con maggiore pienezza.» I capitoli brevi sono scritti a due mani, con la naturalezza di una fiaba, la gaiezza e leggerezza di un «canto» anche là dove si racconta di paure, pericoli, valanghe, morte. Ora narra Simon (Kehrer) ora Walter (Nones), in un alternarsi di note tecniche, gioie intense, impressioni di viaggio, emozioni dell’attesa, stanchezza fisica, allegria complice, sogni ad occhi aperti, nostalgie di casa, sofferenza mortale, resurrezione e spirito di sopravvivenza, silenzi e bellezze primordiali: «L’alba è il momento più freddo della notte. Le montagne intorno a noi assumono sfumature stupende, mentre nasce il nuovo giorno. Ma il silenzio è la cosa più impressionante. Sembra di assistere alla creazione del mondo.» Queste righe di una bellezza ascetica e rivelatrice descrivono il sorgere di un giorno, il 15 luglio 2008, promettente infinito e, purtroppo, anche eternità: il silenzio del meriggio avrà l’eco tragico e improvviso della morte. Incontriamo i due autori Simon Kehrer e Walter Nones, sopravvissuti alla tragedia del Nanga Parbat, dove il loro compagno e capo spedizione Karl Unterkircher muore, scomparendo in un crepaccio invisibile. Com’è avvenuto l’incontro con Karl Unterkircher? E perché avete scelto il Nanga Parbat? Kehrer. L’incontro con Karl è avvenuto circa 10 anni fa; era un amico, un uomo calmo, simpatico, un grande alpinista che sapeva quello voleva. La scelta del Nanga Parbat l’avevamo fatta nel 2003-2004, poi però i colleghi che dovevano partecipare alla spedizione hanno messo da parte il progetto. E così nel 2008, dopo i problemi incontrati nel Gasherbrum, lo abbiamo subito ripreso. Come si vive un’ascensione in gruppo? Nones. È importante conoscersi molto bene, non solo dal punto di vista alpinistico ma anche del carattere, perché si sta insieme 24 ore su 24; è fondamentale andare d’accordo non solo per la riuscita dell’impresa ma anche per la fiducia che riponi nei compagni, nonostante sai che in alta quota ognuno deve essere in grado di gestirsi da solo, in ogni situazione, e con Karl e Simon è stato così. E poi riesci a fare dei dialoghi molto profondi, come testimoniano le pagine del nostro libro: scalare una montagna non è solo esperienza alpinistica ma anche umana. Cosa prevale in un’impresa alpinistica: la tecnica, l’esperienza, il desiderio di riuscire? Kehrer. Innanzitutto l’amore per la montagna e il desiderio di scalare una parete ancora inviolata. Come vivete il pericolo e i fascino del supermento dei limiti, la forza smisurata della montagna? Kehrer. Io non direi che superiamo i nostri limiti; forse superiamo i limiti delle vecchie generazioni di alpinisti. Non è il pericolo che ci attira, anzi cerchiamo di evitarlo; quando non è possibile, allora in quei momenti ci dobbiamo affidare al nostro destino. Nones. Li vivo come la vita di ogni giorno: nel modo più naturale e spontaneo possibile. Quando si fanno queste scelte la cosa che mi piace è che si vive intensamente ogni attimo; anche il semplice gesto di prepararsi da bere diventa importante. Nanga Parbat: Karl Unterkircher scompare davanti ai Suoi occhi: quanto pesa l’amicizia, gli affetti e quanto la pulsione di vita? Kehrer. Il tutto accade in un attimo, in un silenzio che sembra non finire; poi realizzo che Karl è sparito, non solo davanti ai miei occhi, ma….. Durante e dopo il tentativo di soccorso mi passano nella mente tanti ricordi, momenti felici trascorsi con lui… Poi, però, l’istinto di sopravivenza diventa più forte, anzi abbiamo l’obbligo di continuare, sentiamo il dovere di portare a termine il sogno di tutti e tre: aprire una nuova via, scalare la grande parete del Rakhiot e …dedicarla a Karl. Cosa significa raggiungere o rinunciare alla cima? Kehrer. La montagna è bellezza ma anche pericolo. Si deve sempre tenere un margine di controllo per capire quando è il caso di rinunciare. Non ci si deve vergognare per questo, anzi è segno di saggezza, poiché anche quando un’impresa riesce non è merito tuo: è stata la montagna a permetterlo. Quando Simon Kehrer e Walter Nones torneranno sugli Ottomila? Kehrer e Nones. Qualche sogno nel cassetto c’è. Vediamo cosa ci porta il destino: è la montagna che chiama! (Francesco Marchioro, in Corriere della sera - Corriere dell'Alto Adige e Trentino, 11.06.2009)
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